Dobbiamo parlare di più della salute mentale degli atleti

Ne abbiamo parlato intervistando la psicologa del Torino, Giorgia Rocchetta.

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La salute mentale degli atleti è un argomento che sta diventando sempre più discusso, in misura maggiore più dai diretti interessati che da istituzioni e media, con questi ultimi ancora imbarazzati o legati a vecchie strumentalizzazioni quando si tratta di argomentare il tema. 

La percezione che si ha attorno all’argomento della salute mentale ricorda quasi la sommersione che subisce il tema dell’omosessualità nel calcio, una questione che interessa poco e pochi e che forse è meglio relegare ai gradini più bassi dell’agenda mediatica, come se non esistesse.

Quando il tema della salute mentale degli atleti non viene sommerso invece, capita di leggere articoli e titoli che esaltano l’accezione “oscura” della questione o che legano ossessivamente la condizione di depressione alla fragilità caratteriale di una persona, quasi a dire: solo i fragili cadono in depressione.

Un grave errore dovuta alla disinformazione di chi scrive o alla necessità di ingabbiare il tema in una cornice stretta, pur di rincorrere la notizia del momento, proprio come è capitato mesi fa e negli ultimi giorni per il “caso” Ilicic.

Per analizzare queste micro-tematiche che ruotano attorno al discorso della salute mentale nello sport, abbiamo coinvolto Giorgia Rocchetta, professionista del settore laureata in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, successivamente in psicologia dello sport. Giorgia collabora da 4 anni con il Torino e da quasi un anno con la FIGC.

Giorgia Rocchetta

Benvenuta Giorgia, cominciamo mettendo ordine.

Come mi hai anticipato, è bene chiarire che chi fa il tuo lavoro si focalizza sul talento e le potenzialità di una persona-atleta, e non su una patologia come spesso si pensa. Quest’ultimo paradigma deve subito rendere chiara una cosa: il percorso con uno psicologo non è legato necessariamente ad una difficoltà mentale o ad un periodo transitorio per forza negativo.

Detto questo, raccontaci la tua routine professionale. Cosa fa uno psicologo che lavora nel mondo del calcio ogni giorno?

All’interno dei club con cui lavoro mi capita di scendere in campo con le squadre per osservare lo stile di conduzione dell’allenamento da parte degli allenatori, infatti qui la comunicazione è fondamentale. Attraverso di essa si lavora su aspetti cruciali quali, la motivazione degli atleti, la gestione dell’errore, l’autoefficacia, cioè la fiducia che l’atleta ha delle sue capacità, sul clima e di conseguenza anche sull’apprendimento.

Inoltre, fornisco un supporto specifico in base alle situazioni che si presentano, lavoro individualmente con i ragazzi quando ne sentono il bisogno e infine gestisco la parte di formazione degli allenatori, dirigenti e conduco degli incontri informativi con i genitori il tutto all’interno di un progetto elaborato ad inizio stagione

Hai lavorato sia con delle prime squadre in precedenza, sia con sezioni giovanili di club, come stai facendo ora con il Torino. Mi viene da chiederti, i problemi quotidiani da risolvere e la metodologia, cambia a seconda dell’età e la categoria professionale?

La metodologia è sempre la stessa, cioè vi è una prima fase detta plan, in cui lo psicologo prima di iniziare qualsiasi intervento valuta e pianifica ciò che si deve fare sulla base delle esigenze emerse, poi successivamente si passa alla fase dell’azione DO, cioè si avvia un intervento di ottimizzazione e qui potranno esserci delle differenze in base all’età dei soggetti a cui si rivolge l’intervento stesso, successivamente vi sarà una fase di verifica CHECK dei risultati prodotti dall’intervento stesso, ed infine, qualora i risultati siano stati soddisfacenti, avremo una fase di standardizzazione del ciclo nell’ottica del miglioramento continuo.

In ogni caso ogni intervento sarà specifico per la realtà in questione e dovrà andare a lavorare sull’esigenze specifiche emerse e che tra l’altro potranno mutare nel tempo.

Per uno sportivo il ruolo che svolge la salute mentale nella propria vita è forse più delicato che in altri lavori, perché un calciatore non può sottrarsi ad un impegno il giorno di una partita, o meglio potrebbe qualora abbia discusso e analizzato la sua condizione insieme a staff e squadra.

In una chiacchierata con l’ex calciatore di Serie A e B Alessandro Gazzi (che uscirà a breve sul magazine), si è parlato di quanto sia complicato parlare delle difficoltà mentali in uno spogliatoio per diversi motivi. Sia per questioni di fiducia nell’interlocutore, sia per via dei tratti caratteriali introversi di un calciatore o per il timore di essere etichettato, l’apertura viene meno.

Quali sono le condizioni emotive ed empatiche che un ambiente come una squadra dovrebbe considerare per poter discutere “serenamente” di questa questione?

Secondo te quanto è difficile parlarne in ambienti come quello del calcio?

Purtroppo ancora troppo spesso si associa alla figura dello psicologo dello sport il concetto di patologia mentale e si pensa che chi deve ricorrere a questo tipo di supporto sia un debole, anziché pensare come giusto sia l’esatto contrario, e cioè che chi ricorre a questo tipo di supporto è chi è assolutamente consapevole dei propri punti di forza e delle proprie aree di miglioramento e su queste decide di lavorare ricorrendo alle figure professionali preparate e pronte ad accogliere le diverse esigenze di un calciatore.  

È quindi fondamentale in questo senso fare cultura e spiegare in cosa consiste realmente il lavoro dello psicologo dello sport.

Per poter quindi svolgere un buon lavoro è necessario che sia gli atleti che l’allenatore e tutto lo staff prendano consapevolezza che le abilità mentali influenzano la prestazione e che queste sono allenabili così come la tecnica, la tattica e il fisico.

Riprendo le parole di Alessandro Gazzi, quando parla del periodo in cui ha avuto difficoltà mentali, tra il 2010 e il 2011:

“Da quando mi alzavo dal letto, svogliato e con pensieri negativi sempre rivolti al lavoro, pensieri che si accumulavano e accumulavano e che mi stringevano in una morsa stressante; a quando facevo una passeggiata in centro con la mia famiglia e avevo voglia di tornarmene a casa e non farmi vedere da nessuno”.

In una intervista di inizio anno a Sky Sport UK Cristiano Ronaldo ha spiegato che troppo spesso chi parla e vive di calcio si focalizza troppo su tattica e schemi, quando a fare la differenze e ad eseguire quelli schemi ci sono persone che devono arrivare ad un certo punto di focus e status mentale. è l’unica cosa che conta.

Quanto influisce invece la condizione mentale sulla prestazione, ma anche nella vita fuori dal campo?

È un aspetto fondamentale!

L’obiettivo del mental training è quello di rendere consapevole l’atleta di quali sono le abilità mentali che gli permettono di esprimere tutte le sue potenzialità quando scende in prestazione, spesso capita che vi siano atleti che hanno una resa di gran lunga superiore in allenamento rispetto alla competizione, oppure atleti con dei rendimenti poco costanti, lo psicologo dello sport lavora per migliorare la prestazione sportiva, aiutando il singolo atleta e le squadra ad essere consapevoli di quali pensieri, emozioni e comportamenti  hanno effetti negativi o positivi in gara o in allenamento e a modificarli, e insegnando tecniche psicologiche per incrementare la performance. 

Torniamo ad affrontare il discorso su come queste tematiche vengono raccontate, anche al di fuori dell’ambiente squadra, quindi sui media.

A settembre scorso il Chicharito Hernandez ha lanciato il podcast “Non siamo Robot” in cui parla insieme ad altri ospiti della condizione di salute mentale degli atleti, troppo volte schiacciati dall’ambiente e dai ritmi frenetici in cui lavorano.

Come possono aiutare dei contenuti di auto racconto di questo tipo, soprattutto se ideati da chi sa di cosa parla?

Come dicevo prima è importante che se ne parli soprattutto per fare chiarezza su questi temi, sulla professione dello psicologo anche per andare a sfatare tutti i pregiudizi che ancora ci sono. Sicuramente portare delle esperienze dirette di chi ha deciso di avvalersi di questa figura, raccontando anche i benefici ottenuti è un buon punto di partenza.

Passando invece ai media, trovo spesso una certa superficialità con cui viene trattato il discorso della condizione mentale dei calciatori. Spesso leggo titoli o semplificazioni come “malattia silenziosa”, o espressioni del tipo “come può un giovane calciatore, all’apice della carriera essere depresso?, o il solito clickbait che strumentalizza un argomento interessante per incuriosire il lettore e  spingerlo al click.

Sembra sempre che la depressione sia agganciata alla fragilità, come se riguardasse un “genere di caratteri” o se sia una condizione perenne e non transitoria, una malattia appunto.

E non ho ancora citato la pratica di isolamento anche mediatico che spesso scaturisce una situazione del genere. Nel caso specifico di Ilicic, ad esempio, dopo diverse settimane di gossip (perché questo è quanto fatto da quasi tutti i media nazionali), a rompere il silenzio ci ha pensato il compagno di squadra Gomez, come se il diretto interessato andasse isolato o reso invalido per poter spiegare la sua situazione.

Quale sarebbe l’approccio più onesto intellettualmente parlando di trattare questi argomenti per il grande pubblico?

Intanto, questi esempi devono far capire al grande pubblico che a tutti può capitare di incorrere in momenti difficili nella propria vita, e che anche patologie come la depressioni o gli attacchi di panico sono cose che capitano, di cui non ci si deve vergognare. Le cause possono essere diverse. Ma da tutte queste si può uscire.

La questione è che nessuno ne parla di questo pubblicamente perché questi problemi a differenza di quelli fisici rappresentano un tabù, in più se i tifosi venissero a conoscenza di questo oggi sui social i giocatori verrebbero distrutti perché a causa di falsi pregiudizi si pensa che notorietà e denaro facciano la felicità, perché non si conoscono le pressioni, i sacrifici a cui giustamente vanno incontro gli sportivi per poter mantenere certi livelli di prestazione.

C’è davvero poca conoscenza e informazione rispetto a tutti questi temi, uno studio su 50 nuotatori in lotta per entrare nelle squadre olimpiche e mondiali del Canada ha rilevato che prima della competizione il 68% di loro mostrava sintomi che corrispondono alla depressione.

Il calcio non è diverso in questo senso. Un altro studio del 2017 ha evidenziato come su 384 calciatori professionisti europei il 37% aveva sintomi di ansia nell’arco di 12 mesi.

L’international society of psychology ha sottolineato la necessità di educare in tal senso atleti e allenatori per superare questa stigmatizzazione del problema.

Per aiutare gli atleti nell’affrontare queste situazioni è fondamentale intervenire già quando si presentano lievi problemi ancora di natura non patologica con l’obiettivo di prevenire l’insorgenza di malattie mentali, tutto questo si può e si deve fare attraverso la formazione e l’informazione sia negli ambienti sportivi che sui giornali attraverso la testimonianza dei protagonisti del mondo dello sport.

Per chiudere Giorgia, non posso non farti una domanda sui social media e le infinite possibilità di connessione che permettono queste piattaforme. Quali sono le conseguenze mentali in positivo e negativo, che possono avere i social media sugli atleti?

I social network sono sul banco degli imputati ormai da anni in termini di effetti sulla salute mentale e sui disturbi della prestazione.

Ci sono anche tantissime ricerche in questo campo che però presentano spesso risultati non concordi e omogenei e soprattutto che rendono difficile rispondere a questo tipo di domande, cioè i social fanno bene o fanno male? Tutto questo dipende da come vengono utilizzati, da chi vengono utilizzati e per quanto tempo vengono utilizzati.

Sempre più spesso i social sono un mezzo anche per l’affermazione del proprio ego e quando si parla di sportivi di alto livello come calciatori professionistici questa necessità si unisce anche a quella degli sponsor che vogliono ottenere visibilità, i fan vogliono scavare sempre più profondamente nella quotidianità dei loro beniamini, dentro e fuori dal campo.

Inoltre, vi è da parte dei fan la possibilità ormai di arrivare a comunicare con loro in modo semplice e veloce attraverso i commenti, tutto questo comporta da parte dell’atleta stesso la necessità di avere una buona consapevolezza di sé, la capacità di rimanere ancorato al qui e ora inteso come la realtà vera, e non quella virtuale, senza perdere la concentrazione su quello che è il suo reale obiettivo sportivo. Pertanto, è fondamentale saper gestire questi nuovi strumenti, infatti se queste cose possono rendere molto popolari gli sportivi, queste stesse cose se mal gestite possono generare infelicità.

Infatti, essere presenti in maniera eccessiva sui social può portare anche a situazioni di ansia.

È ormai consuetudine vedere gli sportivi isolarsi con le loro cuffiette, seppellire la testa nei telefoni dopo le partite. Guardando i momenti salienti, ascoltando i commenti, seguendo i meme e passando una quantità incredibile di tempo a cercare di decifrare gli emoji. Tutto questo ormai è la normalità, ma come sempre ogni cosa deve essere fatta con consapevolezza e il giusto equilibrio per non andare incontro a spiacevoli conseguenze.

Grazie Giorgia per il contributo e in bocca al lupo per il resto della stagione sportiva.

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