Francesco Repice è, senza dubbio, un rivoluzionario della narrazione calcistica. In questa intervista, il giornalista calabrese, ci ha raccontato la propria carriera da radiocronista e l'evoluzione del mestiere, toccando anche temi differenti quali le infrastrutture e la trasformazione del calcio
La radiolina, le partite e il rituale perpetuo di ogni partita, chi, tra i seguaci nel calcio, non ha mai ascoltato una radiocronaca? Tra i protagonisti assoluti di questo settore, nel nostro tempo e non solo, c’è Francesco Repice, un rivoluzionario della narrazione sportiva in radio. Una lunga carriera, quella del giornalista calabrese, costellata di tanti successi, come l’ultima esperienza teatrale che lo ha portato in giro per la Penisola. In questa intervista ci ha raccontato la propria avventura nel mondo giornalistico e il cambiamento del ruolo e del modo di raccontare dei radiocronisti, senza tralasciare il tema scottante delle infrastrutture e dell’evoluzione del mondo del calcio.
Qual è stata la scintilla che ti ha portato verso il mestiere del radiocronista?
“Per la verità io sono un calciatore frustrato, che è la prima componente. In seconda battuta sono un tifoso vero. Io sono arrivato in infime categorie durante la mia carriera calcistica e non perché mi sia fatto male, ma perché non avrei potuto fare meglio di Eccellenza o Promozione. Sono un tifoso sanguigno, vero. La squadra del mio cuore è molto più importante di quanto si possa banalmente raccontare, in realtà ha un significato molto più profondo. Tornando all'argomento, per restare all’interno del mondo due calcio avevo due strade: l’arbitro, con cui non ho mai creato un gran rapporto da giocatore, o il giornalista. Alla fine ho intrapreso la seconda strada”.
C’è stato qualche punto di riferimento fondamentale per la sua carriera?
“Sì. Io impazzivo un vecchio giornalista Rai, che ora non c’è più, purtroppo, Italo Moretti, corrispondente per l’America Latina durante i colpi di Stato e lo sommosse popolari, narratore di tutti problemi che qual subcontinente attraversava, e continua ad attraversare ancora oggi, fondamentalmente. Mi sono appassionato al giornalismo grazie a personaggi come lui, il quale, peraltro, ho sentito anche in una puntata di “Tutto il calcio minuto per minuto” da Napoli. Non eccelleva in qualità di radiocronista, ma lo faceva in altre cose ben più grandi. Poi ce ne sono altri: Sandro Ciotti, Victor Hugo Morales, che ho conosciuto, e i miei amici Bruno Gentili e Riccardo Cucchi. Ci sono tante persone che mi hanno influenzato e da cui ho cercato di prendere qualcosa, creando, di conseguenza, un modo e uno stile di racconto e di narrazione tutto mio”.
Proprio in virtù di questo, quanto è cambiato il modo di raccontare attraverso la radiocronaca?
“Ovvio che la vecchia scuola dei giornalisti Rai imponeva una sorta di distacco. Con l’arrivo delle piattaforme televisive è sopraggiunta una competizione più serrata. Chi ottiene i diritti per mandare in diretta le partite scalfisce il bacino d’ascolto proprio della radio. Dobbiamo mantenere, senza competere, perché non si può, quello zoccolo duro di milioni di ascoltatori che ti seguono per diversi motivi: o perché amano il mezzo, o perché non possono permettersi un abbonamento, o molto banalmente perché devono lavorare. In questo senso la radio ha un grandissimo vantaggio. Tu non sei costretto a guardare e rimanere fermo rispetto al mezzo televisivo, la radio di insegue, ti consente di fare quello che vuoi - di andare con tua moglie, al cinema, al teatro, e altro - e di avere sempre qualcuno che ti informi su quello accade nel mondo”.
C’è una radiocronaca a cui sei più legato?
“Tutte le radiocronache mi danno emozione. Io non porto neanche una penna in postazione, è lo stadio che deve raccontarmi ciò che devo dire. Senza lo stadio non c’è la radiocronaca. Chiaro che ce ne sono alcune a cui sono più legato: ad esempio, la vittoria dell’Europeo, lo scudetto della Roma - vissuto da bordocampista -, la delusione per la sconfitta in finale di Euro 2000, una finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United con un calciatore, Abidal, che non doveva essere neanche in vita e che era lì con la fascia da capitano. Tante cose. Per me il pallone, anzi uno stadio, è emozione continua”.
Con l’avvento delle nuove tecnologie cosa è cambiato?
“Noi temevamo che con l’avvento delle nuove tecnologie il mezzo radiofonico sarebbe stato seppellito una volta per tutte. Alla fine è successo l’esatto contrario: la radio ha amplificato il suo raggio d’azione e il numero di persone raggiunte. Ad esempio, mettiamo il caso che io mi trovi in macchina in una città della nuova Nuova Zelanda e volessi ascoltare il derby tra il Parghelia e il Tropea, semplicemente grazie alla rete ho la possibilità di farlo. È qualcosa di rivoluzionario. La zona d’influenza è stata esponenzialmente allargata. Chiaro che c’è stato un cambio di narrazione, anche dovuto all’arrivo delle piattaforme televisive, e che ciascuno di noi ha cambiato il metodo dei vecchi telecronisti, più tendente verso uno stile pacato e distaccato. Noi ci mettiamo molto entusiasmo, abbiamo sudamericanizzato il racconto, fino a farlo diventare quasi un “Relate”, come si dice nell’America Latina, e questo sta riscuotendo un po’ di successo, grazie anche alla grande evidenza che data dai social al nostro lavoro”.
Ultimamente ha avuto un passaggio verso un ambiente completamente differente: il teatro.
“Questo fa parte della curiosità, della necessità adrenalinica dell’uomo. Hai bisogno sempre di nuovi orizzonti, nuove sfide. Io il pubblico che mi ascolta l’ho sempre immaginato e mai avuto davanti. So che ci sono milioni di persone che ci seguono, ma noi non le vedo mai. Il teatro mi ha dato modo di avere un contatto diretto, facendomi vivere un rapporto epidermico con il pubblico. Questo rappresenta una scarica di adrenalina importante, un rinnovare l’entusiasmo, che magari per l’età va un po’ assopendosi perché non ho mai fatto del lavoro la mia vita. Il lavoro è parte della mia vita, è una parentesi, poi ci sono cose molto più importanti, come la famiglia. È una cosa che è iniziata, è stata aperta e che dovrà essere chiusa, e quindi c’è sempre bisogno di rinfrescare le sensazioni. Per chi, come me, vive di queste emozioni, il teatro è stata una meravigliosa opportunità. Parafrasando un genio della politica come Aldo Moro, le convergenze parallele tra la radio e il palcoscenico teatrale mi hanno aiutato a mettere in scena questo spettacolo”.
Com’è andata questa tournée?
“Sinceramente non mi aspettavo una cosa simile. Non mi aspettavo di vedere il teatro con 500 spettatori presenti. Persino a Cosenza, dove abbiamo portato in scena uno spettacolo su Gigi Marulla e Denis Bergamini dal titolo “Otto e nove (foramaluacchiu)”, prendendo spunto dai numeri delle loro maglie – 8 di Denis e 9 di Gigi –, c’erano 800 persone al Teatro Rendano. Credo sia molto di più di quanto io meriti, ecco”.
Cambiando argomento, cosa pensa delle infrastrutture in Italia?
“Per me uno stadio di calcio è uno stadio di calcio. C’è una discussione sul riqualificare i centri urbani e io sono d’accordo su tutto con i nuovi stadi, ma se sento parlare dell'abbattimento di San Siro - che è la storia di Milano, del miracolo industriale, degli immigrati arrivati al Nord dal Meridione che sventolavano le bandiere di Milan e Inter - mi viene un colpo. Va bene tutto, ma un minimo di storia va lasciata: io penso banalmente che non c’è futuro senza il passato. Tutto bello con i nuovi stadi, ma nessuno considera la parte emozionale. Ricordo i miei viaggi con il 375 (autobus urbano di Roma) per arrivare al Ponte Duca d’Aosta e continuare verso la strada che porta alla Curva Sud dello Stadio Olimpico; nessuno mi restituirà quei momenti. Sembrano stupidaggini, ma per quelli come me significano ancora qualcosa. Molti parlano del calcio con la solita storiella dei ventidue che corrono dietro ad un pallone, sono fesserie. Il calcio è molto di più, tante cose di più. Ben vengano le nuove infrastrutture, ma non si deve cancellare il passato”.
Mi lego a questo chiedendole quanto, invece, è cambiato il calcio odierno?
“Non è cambiato proprio nulla. Oggi parliamo di plusvalenze e cose di cui un tempo non si parlava, ma il pallone continua a rimbalzare dentro ad un campo come lo faceva ieri. Il calcio lo fanno i calciatori, i forti, e tutto il resto non conta nulla. Certo, esiste la dimensione finanziaria, e questo sport è un asset importante per il mondo occidentale, ma alla fine è tutto legato a quella roba che rimbalza sul prato. È fondamentale a livello sociale per l’esperienza. È lo spogliatoio, dove c'è quello forte, quello prepotente, quello timido, il più dotato, il più intelligente, il luogo dove impari a vivere. Lì non ci sono differenze”.