Un anno senza pubblico

Sono passati più di 12 mesi dall’ultima volta di uno stadio con la massima capienza di pubblico in Serie A. Un anno in cui sono cambiate le modalità di fruizione dei tifosi.

Straniamento: quell'effetto tanto caro a Luigi Pirandello; quello che secondo gli intenti del maestro siciliano doveva portare lo spettatore delle sue opere a seguire la storia, però a un certo punto a discostarsene, a percepirla come distante da sé, procedendo in direzione opposta rispetto all'immedesimazione che era alla base del teatro tradizionale o del cinema delle origini.

E qui ci sembra già di sentire lo “stock” del pallone che batte violentemente sul primo pannello pubblicitario oltre la linea di fondo, nell'eco che sale fino alle gradinate deserte, vuote come un ventre digiuno. Nelle pause del respiro di Caressa (che per sua ammissione, dice di aver cambiato il modo di raccontare le partite), Pardo, Marianella e di tutti i loro colleghi, le cui corde vocali fanno ora rimbombare gli stessi decibel di quando il microfono catturava il sottofondo dei tre anelli di San Siro, dell’Olimpico, del San Paolo gremiti e a volte stracolmi di pubblico.

Note alte, altissime, all'occorrenza perfino stridule, con la “striatura” sonora di alcune vocali dilatate per assecondare la concitazione di una fase di gioco o un’azione particolarmente trascinante. Trascinante per chi, a parte le poche decine di fortunati che hanno ancora accesso oltre ai giornalisti?

Per una moltitudine sprofondata nei divani, assuefatta dalla moltitudine di nuovi format che broadcaster e content creator hanno ideato nel periodo di stop del calcio giocato. Un modo evidentemente diverso, da parte del pubblico, di fruire le partite di calcio; con un distinguo sostanziale, rispetto al passato, che riguarda la stretta attualità: sono sempre esistiti gli spettatori esclusivamente televisivi degli eventi calcistici, però assistevano a partite che avevano la cornice di folla che marcava la distanza tra la fruizione indiretta da casa e quella diretta, allo stadio.

Oggi, tornando al concetto di straniamento con cui abbiamo aperto la nostra riflessione, è come se il rettangolo verde non avesse altra cornice che quella dello schermo televisivo. Come se dal divano di casa si attivasse durante la diretta della gara il transfert verso un altro “salotto”, circondato da telecamere e microfoni, all'interno del quale telecronisti e seconde voci fanno prendere allo scambio di opinioni il ritmo più naturale della chiacchierata da studio televisivo, nelle fasi del gioco prive di tratti salienti.

Al tempo stesso, con l’orecchio sempre attento a voci ed espressioni che salgono dal terreno di gioco e dalle panchine: una sorta di dependance narrativa dell’evento che si dipana nel corso dei novanta minuti. Sempre attenti, però, a rispolverare i toni tradizionali quando arriva l’episodio degno di nota. Uno sforzo clamoroso, in assenza del clamore. Il coefficiente di difficoltà in sede comunicativa innalzato dalla necessità sopraggiunta di una teatralità della narrazione che, per via di similitudine, ci fa pensare alla capacità di intonare una canzone ritmandola da sé, in assenza degli orchestrali, ossia di quella folla che costituiva il controcanto costante del racconto delle fasi di gioco. Riempire, dunque, con maggiori spazi di approfondimento, quasi da post – partita, ma sempre pronti ad accendere la spia della concitazione.

Questi signori, anche quelli il cui stile nel raccontare la partita ci è meno gradito, meritano tutti, indistintamente, un applauso.

Paolo Marcacci

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