Responsabilità sociale applicata al calcio: intervista a Stefano D’Errico

Il ruolo che il calcio riveste nella comunità, e l'importanza per la football industry di essere presente in questo ambito, hanno portato ad esplorare orizzonti differenti che portano il calcio ad avere un ruolo sempre più importante a livello sociale.

Immagine articolo

Oggi sentiamo spesso parlare di iniziative in ambito sociale, dalla sostenibilità economica a quella ambientale, dalla solidarietà alle donazioni, dal rapporto con i tifosi a quello più ampio con la comunità locale.

È cambiato il ruolo dei club, è mutato il senso di responsabilità dei calciatori. Per capirne di più abbiamo intervistato Stefano D’Errico, Community Coach Leader all’Arsenal e co-founder del progetto Community Soccer Report, che si occupa di diffondere ed approfondire modelli di riferimento nel settore CSR applicato al calcio.  

Ciao Stefano, ci racconti innanzitutto in cosa consiste il tuo lavoro e quale sarebbe (se c’è) il corrispettivo italiano in un club del nostro Paese?

Ciao ragazzi, grazie innanzitutto per l’opportunità. Parliamo effettivamente di un ruolo particolare, specifico del contesto di lavoro del quale mi occupo. La dicitura ‘community’, nel mio caso, si riferisce a questa realtà caratteristica del calcio inglese chiamata appunto ‘Football in the Community’. Si tratta dell’impegno diffuso, costante e concreto dei club per il proprio territorio, manifestato attraverso la realizzazione di progetti ad alta valenza sociale e educativa. Tutto questo con un unico filo conduttore: il calcio. Nasce qui l’esigenza di una figura professionale capace di progettare e offrire simili esperienze, appunto il ‘community coach’.

Per fare un esempio, nel mio caso specifico lavoro ad un progetto dedicato alle scuole primarie. In queste, pianifichiamo e realizziamo una serie di iniziative che trattano i temi più disparati: dall'educazione fisica alla sostenibilità, dal bullismo alla promozione di stili di vita positivi. Sempre sfruttando il football e l’appeal che un club di Premier League può avere sui giovani.

C’è comunque da dire che il ‘community coaching’ è un concetto estendibile anche ad altri sport e realtà, abbastanza diffuso qui in Inghilterra. Per inquadrarlo, secondo me, è fondamentale considerare diversamente l’attività sportiva, intesa in questo caso come strumento versatile e utilizzata per raggiungere una moltitudine di finalità diverse. Non solo competizione e prestazione, ma anche partecipazione, benessere, salute, inclusione, ecc.  

Detto ciò, è chiaro che questo lavoro trova il suo corrispettivo nel momento in cui simili iniziative vengono realizzate, ricreando quell'idea di calcio e sport al servizio della comunità. E a mio parere, esempi in tal senso in Italia si possono trovare. Parlando di professionismo, penso ad esempio a Inter Campus, di cui abbiamo realizzato una recente intervista con Community Soccer Report. Gli “allenatori” che si occupano di realizzare le attività, promuovendo quei valori fulcro delle iniziative, possono essere facilmente considerati ‘community coaches’. Ma anche chi lavora per una società dilettantistica ricopre, in un certo senso, questa posizione, perché si occupa di promuovere la pratica sportiva sul territorio. Certo è che, ritornando a quanto detto in precedenza, questo è solo una minima parte rispetto a quello che si potrebbe davvero fare.

Non posso non chiederti quali sono le grandi differenze che noti ogni giorno tra sistema sportivo e calcistico in Italia e quello inglese, tanto conclamato e preso come modello in tutto il mondo. È davvero così?

Credo che quanto appena detto riassuma perfettamente quello che ho potuto notare in questi anni in Inghilterra. L’idea che lo sport e il calcio siano realtà che possano andare al di là della visione più tradizionale e impostata, che caratterizza per esempio il nostro Paese e che ho sempre conosciuto. Ho scoperto qui una realtà diversa, nuova, ma per questo sorprendente e affascinante per un amante dello sport come mi considero.

Vi faccio un esempio. Nel weekend frequento spesso un parco vicino casa, nel nord di Londra. E quello che vedo ogni settimana è forse l’emblema di questo discorso. Campetti da calcio (fatti da conetti e porte di plastica mobili) sparsi in questo grande prato verde, con decine di partecipanti che vanno dai bimbi di quattro anni alle signore di mezza età impegnate nella loro sessione di walking football. Nessuna struttura o impostazione particolare, ma solo attività sportiva nella sua natura secondo me più vera. E questo non è un caso isolato, ma una scena ricorrente e diffusa.

Ecco, questo mi ha sempre impressionato. L’idea che si possa fare attività in molti modi e in maniera non per forza troppo strutturata. Elementi parte di una cultura sportiva diversa, che si va poi a tradurre in tutte quelle iniziative che anche i club di calcio professionistici realizzano nella comunità.

Siamo qui proprio perché il tuo lavoro rientra nella sfera della responsabilità sociale e perché hai lanciato il progetto “Community Soccer Report" insieme ad altri colleghi e all’agenzia PSM Sport. Quindi ti chiedo due cose: cosa vi ha ispirato a lanciare questa idea e se riesci a fornirci una panoramica della situazione italiana?

Intanto chi vuole può scaricare il primo report ufficiale QUI.

Community Soccer Report nasce per una serie di motivazioni che ho coltivato in questi anni. Innanzitutto, dal desiderio di trasferire e condividere parte della mia attuale esperienza in Inghilterra con l’Arsenal in the Community, spinto da una domanda ricorrente: “Ma una realtà simile è replicabile anche in Italia?”.

Poi, ovviamente, anche dalla volontà di approfondire un interesse sempre più grande per la responsabilità sociale nel calcio, dimensione secondo me sempre più attuale e importante in questo mondo, alla pari di altri settori della nostra società. Qualcosa che peraltro accomuna me e Valentino Cristofalo, co-fondatore del progetto, con cui abbiamo deciso di trasformare questo interesse condiviso in qualcosa di reale e concreto.

Nasce così questo “osservatorio della responsabilità sociale del calcio italiano”. Un portale attraverso cui raccontare i migliori progetti, intervistare esperti e addetti ai lavori, ma anche approfondire tematiche specifiche. Un ‘hub di contenuti’ per il momento, che vorremmo poi trasformare in un network vero e proprio, offrendo una serie di servizi e aiutando i membri nello sviluppo di questa realtà.

Per raggiungere questi obiettivi, conoscere la situazione del calcio italiano in quest’ambito è sempre stata una prerogativa fondamentale. Qualcosa che non sono mai stato in grado di inquadrare in maniera precisa per mancanza di dati reali e oggettivi. Abbiamo quindi deciso di realizzare un approfondimento dedicato proprio per colmare questo vuoto informativo. Uno studio capace di restituire un quadro dettagliato di cosa venga effettivamente realizzato dai club di Serie A in termini di progetti e iniziative. Qualcosa che rappresenti anche un punto di partenza dal quale iniziare un percorso di riflessione per capire cosa si può fare per migliorare le cose, nonché un’occasione per condividere quelle pratiche positive che troppo spesso rimangono “nascoste”.

Quello che abbiamo riscontrato è che da un punto di vista quantitativo esiste un buon numero di progetti, con molte delle aree di intervento analizzate (sport, beneficenza, ambiente, scuola, formazione e inclusione sociale) ben rappresentate. In queste, però, c’è sicuramente da migliorare, soprattutto per quanto riguarda la qualità delle proposte, spesso troppo ancorate a “quello che si è sempre fatto”, lasciando del tutto inespresso l’enorme potenziale del calcio come fenomeno sociale.

E poi sono emersi due elementi fondamentali che secondo me sono quelli che più di tutti differenziano il sistema italiano da quello inglese che vivo quotidianamente. Innanzitutto, la mancanza di un leader che supporti, incentivi e coordini questo sistema, alla pari della Premier League o della EFL. Il progetto a cui lavoro, per esempio,è promosso e supportato economicamente dalla Lega, nonostante siano i club a realizzarlo e declinarlo nel proprio territorio. Qualcosa che in qualche modo si collega al secondo aspetto, ovvero il networking. Lavorare su obiettivi comuni potrebbe innescare quei processi di condivisione, confronto e collaborazione che possono davvero beneficiare tutto il sistema, ma che mi è parso manchino.

Quali sono invece, per entrare nello specifico, le attività di responsabilità sociale che hai apprezzato di più in Italia?

Su un ipotetico podio metto sicuramente prima la Juventus, eccellenza nel panorama italiano anche in questo campo che ha saputo abbracciare i temi della sostenibilità a 360°, integrandoli all'interno del proprio core business. Ho apprezzato anche il modo attraverso cui hanno iniziato questo percorso, coinvolgendo i propri stakeholders al fine di rendere questo impegno efficace e specifico, oltre alla qualità di alcuni progetti (premiati a più riprese).

Appena sotto e alla pari metto Inter, Milan e Roma. Questo considerando il loro impegno complessivo, le numerose iniziative realizzate nel campo della beneficenza, ma soprattutto perle attività nelle scuole e favore dell’inclusione sociale, aree nelle quali il calcio e il suo appeal possono giocare un ruolo davvero molto importante.

Tuttavia, ci sono anche altri esempi degni di nota. Il Cagliari per esempio punta forte (e non potrebbe fare altrimenti) sul fattore territorialità, con iniziative davvero pregevoli. Il Bologna ha una struttura molto interessante, fatta di svariate iniziative (penso per esempio a quelle dedicate alle persone con disabilità e ai giovani tifosi). E infine sono rimasto molto incuriosito dal progetto ‘Genoa Values Cup’, una manifestazione dei rossoblù rivolta alle scuole che punta a promuovere valori positivi del calcio.

Per concludere, è importante non dimenticarsi delle serie minori. La responsabilità sociale non è infatti solo una “roba da Serie A”. Le società di B o Lega Pro, pur con budget diversi rispetto a quelli della massima serie, possono trarre molti benefici da questa pratica, rafforzando la relazione con il proprio territorio, peraltro aspetto che caratterizza questi club. E, a dire il vero, c’è già chi ha deciso di muoversi in questa direzione. La Pistoiese, per esempio, è stata oggetto di un nostro approfondimento per un’iniziativa di sostenibilità ambientale denominata ‘Orange is the new green’. Oppure il Monza, il cui ambizioso rilancio riguarda anche la dimensione sociale attraverso, per esempio, vari interventi nelle scuole locali e un vasto programma di affiliazione per le società calcistiche del territorio. Solo alcuni esempi, con altri che avremo sicuramente modo di scoprire nei prossimi mesi.

E quelle che ti hanno convinto di più realizzate all’estero?

L’Inghilterra è il modello al quale tutti dovrebbero aspirare. Dovendo soffermarmi su un’iniziativa specifica, sarò di parte ma ‘Primary Stars’ credo sia un progetto davvero di qualità e dall'enorme impatto. Dico questo per il contesto nel quale si realizza (la scuola, luogo di formazione per eccellenza) e il target a cui si rivolge (nuove generazioni). L’appeal che un club di calcio può avere sui giovani è unico e impareggiabile. Un potenziale che non andrebbe sprecato, ma anzi coltivato con cura e attenzione. E poi in questo ho apprezzato la versatilità del calcio, capace di veicolare ogni tipo di messaggio o concetto come nessun’altra realtà.

Rimanendo in Inghilterra,il Forest Green Rovers è l’esempio numero uno al mondo per quel che riguarda il connubio tra calcio e sostenibilità ambientale. Impatto energetico zero, sponsor “green” e svariate iniziative per sostenere questa visione. Oltretutto, stiamo parlando di un club di quarta divisione, a dimostrazione che non servono budget di Serie A per impegnarsi in simili pratiche.

In altri Paesi, invece, oggetto di un nostro approfondimento e modello di assoluta rilevanza è quello dell'Athletic Bilbao. Il club spagnolo, conosciuto a livello mondiale per il forte di senso di appartenenza e la valorizzazione dell’identità basca, realizza attraverso la propria ‘Fundazioa’ attività molto interessanti sul territorio che spaziano dall'inclusione sociale alla cultura, passando per la sostenibilità ambientale. Tutto ciò lavorando in funzione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, strumento molto utile nella pianificazione di simili interventi, ma ahimè ancora poco sfruttato nel nostro Paese.

E poi St Pauli e Wolfsburg in Germania: i primi esempio positivo di inclusione e promozione delle diversità, mentre i secondi sono leader nella sostenibilità ambientale. Oppure il Club Brugge in Belgio, vincitori di un premio miglior iniziativa di responsabilità sociale a livello europeo grazie alla realizzazione di un libro per famiglie che promuove i valori sani dello sport e l’importanza del tifo positivo. Insomma, come si può notare la lista è (fortunatamente) lunga, segno che il tema sta assumendo sempre più importanza e attenzione da parte dei club.

Da non perdere