No, il problema del calciomercato non è la sentenza Bosman

Il rapporto di squilibrio tra le figure coinvolte in una trattativa, un modello di business non sostenibile per la Football Industry e la crisi dovuta alla pandemia. I colpevoli vanno trovati altrove.

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La metodologia d’azione di alcuni club e agenti nelle ultime sessioni di calciomercato ha sollevato, con una certa ossessività, la discussione sull’impatto dei parametro zero in ottica di sostenibilità dell’industria calcistica.

Tra le varie argomentazioni sulla questione, una in particolare ha scomodato il senso etico di questa strategia, sollevando dei polveroni sull’atteggiamento opportunistico di procuratori e calciatori che hanno fatto dell’accordo di un loro assistito con un nuovo club in situazione di scadenza di contratto, il proprio cavallo di battaglia.

La radice del problema è stata inquadrata più di una volta nella sentenza Bosman, una ormai famosa decisione della Corte di Giustizia europea che a detta di molti rappresenterebbe il cavillo che ha permesso le degenerazione del calciomercato attuale.

Una visione che risulta molto miope, in particolar modo condizionata dalla definizione superficiale della sentenza, vista banalmente come “una regola che ha permesso gli acquisti a parametro zero”.

La sentenza Bosman è molto di più e rappresenta una questione di interesse generale. Facciamo quindi un passo indietro e analizziamola nel dettaglio.

Sentenza Bosman in breve: come ha modificato il calcio

Il 15 dicembre 1995 la Corte di Giustizia Europea pronunciò la sentenza Bosman che riconobbe all’omonimo calciatore da cui la sentenza prende il nome, le ragioni della contestazione fatta all’RFC Liegi, alla Federcalcio Belga e alla UEFA.

Bosman denunciò un comportamento della squadra di calcio di Liegi (all’epoca detentrice del suo cartellino). Il club belga lo aveva messo fuori rosa a ingaggio ridotto dopo aver valutato l’offerta di acquisto del cartellino di Bosman da parte del Dunkerque troppo bassa.

In quel momento Bosman arrivò in scadenza di contratto, senza la possibilità di accordarsi in anticipo con un altro club. Un cavillo non da poco risolto dalla sentenza. Infatti, da quel momento viene sancita la possibilità per un lavoratore di firmare un precontratto a 6 mesi dalla scadenza del rapporto contrattuale in essere. Un altro dettaglio importante da tenere in considerazione è la differenza tra proprietà di un cartellino e proprietà temporanea (definita appunto dalla lunghezza di un contratto) delle prestazioni di quel calciatore. La differenza non è solo etimologica. 

Il confine della sentenza Bosman viene spesso e volentieri limitato al territorio calcistico, ma in realtà come premesso in precedenza, la questione è di pubblico interesse perché la sentenza andò a regolare la libera circolazione dei lavoratori sul territorio dell’Unione Europea nel mondo dello sport, tenendo fede al sistema messo su dal Trattato di Roma (articolo 39 ai tempi della sentenza, oggi articolo 45). Come si sente dire in linguaggio giuridico, infatti, la sentenza Bosman assume valenza di tipo “erga omnes”: diventa un metro di paragone per tutto lo sport.

Ricapitolando, le grandi modifiche scaturite dalla sentenza Bosman vanno ricercate nella libertà conferita ad un lavoratore di circolare nel territorio europeo e in un certo senso, perdonatemi il gioco di parole, la ridefinizione dell’indipendenza di un dipendente. Come si può intuire quindi, un passo in avanti per tutelare le garanzie di un lavoratore all’interno del mercato del lavoro.

Ma non solo. Uno dei punti che spesso viene tralasciato o dimenticato della sentenza Bosman e dei suoi effetti collaterali, sta nella possibilità data ad una società sportiva di poter ridistribuire gli utili conseguiti tra i soci alla fine di ogni stagione.

Le società, ovvero i presidente e i membri del consiglio di amministrazione possono creare business e ricchezza dalla gestione di una società sportiva, e non sono più obbligati a reinvestire i ricavi nella società (cosa che prima era obbligatoria), con una cifra minima da destinare al settore giovanile e alla modernizzazione delle infrastrutture di tale società sportiva.

La vera rivoluzione che ha permesso di buttare il seme di quella che oggi è una fiorente industria sta qui, e non nella possibilità dei calciatori di accordarsi 6 mesi prima della scadenza con un altro club. Quest’ultima è semmai una risposta alla possibilità offerta ai club di fare cassa grazie alla compravendita di calciatori, situazione in cui agenti e procuratori ci hanno visto negli ultimi anni un’opportunità che ha poi portato alla riorganizzazione dei rapporti di potere e contrattazione nel mondo del calcio.

Come siamo arrivati al sistema e al calciomercato di oggi?

Oggi un calciatore può firmare un precontratto con un’altra squadra a 6 mesi dalla scadenza del rapporto in essere, senza che la squadra in cui quel calciatore milita al momento della firma ottenga una fee per il trasferimento.

Una condizione possibile dal 1995, ma che sembra solo oggi meritevole di attenzione da parte di media e istituzioni. Questa scenario è il primo campanello di allarme che deve far intuire come la sentenza Bosman non sia la radice del problema. Principio che invece risiede nello sbilanciamento dei rapporti di forza che si sono creati in fase di contrattazione nel mondo del calciomercato. Condizioni esogene come la crisi economica dovuta alla pandemia, hanno poi contribuito alla proliferazione del fenomeno degli acquisti a parametro zero, inasprendo la situazione.

Per un club “perdere a zero” un calciatore è sicuramente un condizione non favorevole perché questi rientrano tra gli asset che generano il famoso valore economico del brand. Viene facile da intuire come perdere un bene di valore senza aver ricevuto una compensazione economica sia svilente per il proprio bilancio e la salute economica.

I club perdono di valore e per giunta vengono a mancare dei soldi che sarebbero stati reinvestiti, rimanendo all’interno del sistema calcio, anziché esclusivamente nelle tasche di professionisti che non reinvestiranno quelle risorse nell’infrastruttura calcistica.

Ma le valutazioni non si limitano solo a questa finestra sul problema. Il caso Insigne (varrebbe lo stesso discorso per Gianluigi Donnarumma e il Milan) ci insegna come per un club (il Napoli) possa essere “più conveniente” liberarsi di un contratto pesante da dover ammortizzare negli anni, anziché rinnovare a cifre uguali o maggiori e poi provare a rivendere un proprio asset (Insigne appunto).

Così come un'altra prospettiva, la più rilevante in questo momento, è il rapporto di convivenza (e convenienza) creatosi tra alcuni procuratori e alcuni club. Il più classico esempio di cane che si morde la coda: per una squadra che perde un calciatore a zero ce n’è una che lo acquisisce senza pagare una transfer fee, ma piuttosto offrendo una commissione al procuratore (che risulta comunque sempre minore alla prima opzione).

Al Festival dello Sport di Trento il presidente di Lega Serie A Paolo Dal Pino aveva espresso un’opinione per nulla sottile sul potere acquisito dai procuratori:

“Il problema oggi sono anche i giocatori che vanno via a zero, con un grave danno ai club. Il caso Vlahovic è evidente, pensate al danno che può ricevere il club viola, mentre ci sono miliardi che finiscono nelle tasche di intermediari”.

Tornando alle origini della questione, lo scenario che oggi sembra essere il male maggiore del calcio (e per carità, è sicuramente una problematica insieme a quella del valore oggettivo dei calciatori, della pandemia e degli stadi di proprietà), è semplicemente un riflesso alla possibilità dei club di monetizzare dalla compravendita dei cartellini. Per questo una delle conseguenze al problema (la possibilità dei calciatori di poter accordarsi con altre squadre in scadenza) non può essere considerata “il problema”.   

“Il problema” non sta quindi nel conseguire un’opportunità permessa dalla legge, per quanto esasperata dagli agenti e dai fondi di investimento negli ultimi 3 anni, ma quanto nello sbilanciamento dei rapporti di potere che anni fa erano invece a favore dei club, o perlomeno non di una cerchia ristretta di club.

Proprio su questo rapporto a fine 2021 si era espresso il Chief of Football della UEFA Zvonimir Boban, stimolato sul tema in un’intervista a Sportweek:

"Il calcio è cambiato e agenti e mediatori servono. Detto ciò, alcune sproporzioni sono inaccettabili e le regole andrebbero rispettate.

Fifa e Uefa non riescono a controllare tutto. Se agenti e mediatori stanno proliferando però la responsabilità non è la loro, ma dei dirigenti dei club che lo hanno permesso. Io non accuso gli agenti, ma il sistema calcistico”.

Vengono citati non a caso i club, gli stessi che hanno giocato insieme ai procuratori portando gli ingaggi dei calciatori più spendibili commercialmente a livelli folli, non di certo a causa della sentenza Bosman, ma nei contorni di una visione di industry che il calcio stava già assumendo: Bosman avvia la sua causa nel 1990, solo due anni, il 27 maggio 1992 la First Division lasciava spazio alla nascente Premier League, con l’obiettivo (poi centrato) di rendere il calcio inglese business e industria di intrattenimento globale.

Intanto, nei cinque maggiori campionati europei il monte ingaggi totale passa dal miliardo di euro del 1995 ai 6,8 miliardi del 2013/14, e questo no, non è colpa della sentenza Bosman.

Le normative UEFA per i procuratori e il futuro del calciomercato

Il fatto che alcune operazioni di mercato poco sostenibili per la Football Industry del futuro seppur legalmente corrette, siano diventate consuetudini apre la questione alle possibili soluzioni.

La UEFA sta pensando alle misure per arginare il fenomeno e sta seriamente valutando l’idea di inserire un tetto alle commissioni che non dovranno superare il valore massimo del 3% del salario lordo del calciatore.
Se invece un procuratore o un intermediario porterà un giocatore da un club ad un altro senza diciamo così, “portarlo a scadenza”, potrà concordare col club che acquista le prestazioni del proprio assistito una commissione fino al 10% del costo del trasferimento. Una commissione volutamente più alta che funge da incentivo al trasferimento del giocatore anziché la soluzione del precontratto a 6 mesi dalla scadenza.

Per chiudere con una metafora, la questione è quindi concentrata sulla ricetta di un vaccino che aumenti la percentuale di immunità, ma che probabilmente non risolverà lo sbilanciamento creatosi nei rapporti di potere. Le strategie di alcuni procuratori saranno calmierate con condizioni che creeranno un recinto oltre le quali non si potrà più agire.

Qualora le istituzioni del calcio riuscissero ad adempiere al ruolo di controllori, le soluzioni paventate diminuirebbero il fenomeno ponendo però le basi per una nuova infrastruttura in cui il potere probabilmente sfuggirà tra le mani di alcuni per passare in mano ad altri soggetti.

D’altronde prima di questa situazione la situazione di squilibrio più evidente era un’altra. I club più prestigiosi sfruttavano il loro maggiore appeal per privare le piccole dei propri giocatori più promettenti prelevandoli in scadenza o a prezzi vantaggiosi, dato che per non incombere alla cessione a zero, i club “piccoli” hanno sempre preferito vendere anzitempo i calciatori apportando uno sconto sul valore del cartellino.

Nella sessione estiva di calciomercato del 2021 il Paris Saint Germain ha aggregato ad un gruppo già particolarmente ricco di talento i vari Sergio Ramos, Georginio Wijnaldum e Gianluigi Donnarumma attraverso la formula del parametro zero e a breve probabilmente sarà “scippata” di Kylian Mbappé dal Real Madrid con la stessa (non) moneta. Il Barcellona prima di perdere Leo Messi, aveva provato a ridurre questo enorme gap tesserando i free Sergio Agüero, Memphis Depay ed Eric Garcia.

Oggi invece la parte del manico è invece in mano ad agenti, procuratori e fondi di investimento proprietari dei cartellini di alcuni calciatori.  

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