Il presidente della FIGC dipinge un calcio italiano in una zona grigia: pieno di progetti ma costantemente frenato dall'inerzia interna e dal conflitto di interessi tra Nazionale e club
Gianluigi Buffon, Gennaro Gattuso e Gabriele Gravina (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)
Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, ha rilasciato una lunga e corposa intervista all'edizione oggi in edicola del Corriere dello Sport-Stadio. Più che un bilancio, è il manifesto di una presidenza in trincea. Bersagliato dopo ogni fallimento sportivo, il numero uno del calcio italiano alza un muro contro l'onda emotiva, ribaltando la provocazione: «A chi mi dice "vai a lavorare" rispondo: se vado via io, riparte il calcio e vinciamo i Mondiali?». Il messaggio è chiaro: il problema non è l'uomo, ma un sistema che si aggrappa alla «ricerca dei colpevoli» con una «metodologia sbagliata».
Gravina, pur dichiarandosi «sereno» sui prossimi playoff, ha mostrato una consapevolezza amara sulle reali dinamiche del nostro sport. L'ammissione più significativa è sul suo stesso mandato: «Ho convocato un'assemblea per la riforma e ho sbagliato a fare marcia indietro». Un pentimento che pesa, figlio del timore che il confronto fosse «aspro e duro» , ma che oggi lo costringe a rincorrere il tempo per attuare le «riforme radicali» di cui il sistema ha un disperato bisogno.
La verità, dice il presidente, è che «la mancanza di riforme è legata a norme statutarie e al consenso delle leghe. Se c'è una lega che è contraria, non le puoi fare». L'immagine che ne esce è quella di un presidente spesso bloccato, prigioniero di una democrazia interna (il voto delle leghe) che non riesce a sbloccare lo stallo, arrivando a definire i club di Serie A «antagoniste della Nazionale», anche se «involontariamente».
I dati che emergono sono allarmanti e confermano la crisi del vivaio: solo il 25% dei calciatori in Serie A è selezionabile per la Nazionale. Gravina taglia corto: limitare gli stranieri comunitari è «impossibile» a causa delle norme UE (sentenza Bosman). La soluzione, quindi, non è un obbligo, ma un cambio di cultura, una «vocazione naturale» verso gli investimenti sulle infrastrutture e sui settori giovanili. In questo senso, l'obiettivo del nuovo progetto di base, che mira a «meno tattica e più tecnica» e a «liberare l'estro» , è un passo nella direzione giusta, seppur tardivo.
Sul fronte economico, la parola d'ordine è sostenibilità, non più confusa con la «crescita senza limiti». Il caso Lazio/Lotito – il cui blocco del mercato è imputato a «pochi ricavi e costi troppo alti» che hanno violato i parametri – è l'esempio lampante di come il sistema sia ancora fragile. Il parametro del costo del lavoro allargato è stato abbassato faticosamente al 70%, con l'obiettivo di avvicinarsi al 50% della Bundesliga.
Infine, Gravina offre una prospettiva cruciale sul futuro globale: pur riconoscendo il valore di Gianni Infantino, avverte che l'attuale espansionismo della FIFA rischia di «fondere» il motore del calcio, ingolfando i calendari. Ma è qui che il Presidente recupera la sua fermezza identitaria: «Come si fa anche solo a pensare di togliere le Nazionali? La Nazionale è identità territoriale, fenomeno di aggregazione».
L'intervista di Gravina dipinge un calcio italiano in una zona grigia: pieno di progetti (i successi delle giovanili , l'autonomia arbitrale promessa per il 2026 ), ma costantemente frenato dall'inerzia interna e dal conflitto di interessi tra Nazionale e club.
La sua permanenza non è legata a una singola partita (il ritiro sarebbe una «valutazione personale» solo in caso di fallimento ), ma alla sua capacità, o meno, di trovare entro marzo il consenso necessario per imporre quella radicale inversione di marcia strutturale che da troppo tempo il sistema ha rimandato.
L'alternativa è continuare a girare a vuoto, con il dito puntato, in un Paese dove la "ricerca dei colpevoli" resta lo sport nazionale più praticato.