La storia di Pier Paolo Pasolini si intreccia con quella del calcio in un legame fatto di amore per il gioco e per il Bologna, aneddoti e della visione più sacra dello sport. A cinquant'anni dalla morte il messaggio del poeta di Casarsa continua a muoversi tra le pieghe della società contemporanea
La complessità di Pier Paolo Pasolini, fuori dalla divisione dei confini canonici, è tutta concentrata nella sua multidimensionalità, figlia della sua indefinibilità e del poliedrico ardore che lo ha sempre contraddistinto, dove l’aspetto artistico si intreccia con il popolare e dove la letteratura scioglie i muri toccando la “rappresentazione sacra” del mondo del calcio. L’amore di Pasolini per lo sport ha trovato ampiamente margine in quella selva di libri che da anni cercano di definire la sua figura, portando l’intellettuale a confronto con la più ampia espressione del volgo, quella riconosciuta dalla maggioranza, che ancora oggi, seppur in misura differente da quel passato, continua a condizionare alcuni aspetti della società.
Gli occhiali neri, la cinepresa, la penna, il mistero, fanno spazio al pallone, al fango, ai campi della periferia, quella periferia amata, raccontata e fatale, la stessa che nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, lo vede andar via per sempre. A cinquant’anni dalla morte, il messaggio di Pier Paolo Pasolini, nelle sue molteplici sfaccettature, è quanto mai vivo e tocca, portando ad una riflessione profondo sui cambiamenti, in modo graffiante, anche il calcio del nostro tempo, lì dove, come asserito da Dacia Maraini, le sue parole risultano oggi “profetiche”.
"I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio comunale!".
Pier Paolo Pasolini
“Il pallone è la rappresentazione in cui coloro che ne sono parte sono in carne ed ossa, e lo fanno di fronte a persone in carne ed ossa. Un rapporto da singolo a singolo, anche fisico”. Il calcio Pasolini lo ha vissuto nella sua accezione più pura e primordiale, quella che rimanda ai campi e alla passione più viscerale del tifo, la malattia che lo lega strenuamente ai colori rossoblù del Bologna, la squadra della sua città natale. La visione pasoliniana di un calcio di rapporto stretto tra calciatore e tifoso fugge dalla prospettiva consumistica del sistema costruito solo pochi decenni più tardi alla sua dipartita, inserito a pieno in un più ampio sistema economico e figlio diretto della società veloce. Pasolini si lega al campo, al fisico, al terreno. Amante del dribbling, gioca come ala, tanto da meritarsi l’appellativo di Stukas, soprannome derivato dall'aereo tedesco usato per i bombardamenti in picchiata. La sua vera passione, dunque, è il calcio giocato, quello dei campi di periferia, quello della partitella, quel termine, ancora oggi tra i più utilizzati nella tematica sportiva, reso popolare proprio da lui.
L’aspetto più tecnico della visione pasoliniana è rappresentato a pieno da un’intervista di Fabio Capello, suo amico e partecipe alle partitelle da lui organizzate, a Il Gazzettino. L'ex tecnico di Juve, Milan e Roma dichiara: “Lui che amava i dribbling, nel vedere tutti i passaggi al portiere di adesso inorridirebbe”. In uno sport che evolve continuamente, la visione atavica di un calcio fisico va in controtendenza con la percezione più spettacolare dilagante, dove Pasolini, oggi, farebbe fatica a comprenderne i cambiamenti. Nella modernità odierna, il messaggio pasoliniano è nitido e rimanda, seppur figlio del suo tempo, ai margini delle città, delle province, e ai campi di terra, dove resta intatto nella sua genuinità.
“Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre. (…) L’attesa è lancinante, emozionante. Dopo, al termine della partita, è un’altra faccenda, ci si rassegna al risultato, o si esulta”
L’attesa della partita come sofferenza che Pasolini sottolinea nell’intervista a Giulio Crosti del 1973 non è altro che lo specchio di un sentimento che stringe e lega la maggior parte dei tifosi di ogni parte del mondo. L’attesa è il vero atto d’amore, il vero momento di unione e di appartenenza, che assume una funzione terapeutica, scardinando i lucchetti della quotidianità. L’ardore per il suo Bologna entra nel cinema pasoliniano con Comizi d’Amore. L’intervista ai calciatori rossoblù all’interno nel film del 1964 rappresenta un modo “innovativo e anticonformista” – come definito da Dacia Maraini nell’intervista rilasciata a Valerio Curcio e pubblicata in appendice al testo Il calcio secondo Pasolini (2018, Aliberti Compagnia Editoriale) – , in cui il campo lascia spazio all’argomento scomodo dei taboo e dell’abitudine sessuale, entrando nel calcio con eleganza e toccando corde mai sfiorate sino a quel momento, anteponendo l’eros al gioco. Il Bologna entra nelle ossa di Pasolini. Il suo idolo è Amedeo Biaviati, attaccante rossoblù per oltre un decennio, dal 1936 al 1948, autore di 58 reti, a cui chiede un autografo. D’altronde per lui "Il capocannoniere è il miglior poeta dell'anno".
Come già preannunciato, è il calcio giocato il vero amore di Pasolini, il campo è il luogo d'amore dove l'eros si intreccia con il gioco, dove l'uno non esclude l'altro. Il suo amore mai nascosto è rimarcato in un'intervista a Enzo Biagi in cui ribadisce che qualora non avesse fatto il regista e il letterato, allora sarebbe diventato un calciatore. Tuttavia, la sua bravura con il pallone è stata più volte messa in risalto. Giunti a questo punto, entriamo nella celebre partita di Parma, dove appare sullo sfondo uno dei più importanti allenatori del calcio di oggi: Carlo Ancelotti.
Cosa c’entra Pier Paolo Pasolini con Carlo Ancelotti? Siamo al parco della Cittadella di Parma, è il 16 marzo 1975, dove in scena una singolare partita di calcio tra la troupe di Salò e le centoventi giornate di Sodoma di Pasolini e quella di Novecento di Bernardo Bertolucci, che proprio quel giorno compie gli anni. Quella di Parma è una partita vera, tanto che Bertolucci, dal canto suo, decide di ingaggiare due ragazzi delle giovanili dei crociati, uno dei quali è Carlo Ancelotti. La partitella di Parma è un incontro di riconciliazione tra i due registi dopo il litigio per le parole di Pasolini sul film Ultimo tango a Parigi. I segnali che si tratta di una partita vera sono dati dal fatto che Bertolucci, come già anticipato, abbia ritenuto importante ingaggiare due calciatori del vivaio del Parma, che, come riferito da Carlo Ancelotti in un’intervista a La Gazzetta dello Sport fatta nel 2021, portano Pasolini a dubitare della regolarità dell'incontro, che, tuttavia, non placa la sua voglia di giocare. L’attuale commissario tecnico del Brasile ricorda: “Loro, la squadra di Pasolini, intendo, erano bellissimi nelle divise rossoblù fiammanti. Lui portava la fascia di capitano al braccio sinistro. Aveva la faccia scura, anche perché si era fatto male. Mi pare che gli avessero fatto un brutto fallo e che zoppicasse”.
La gara, la cui direzione nel primo tempo viene affidata ad un membro della troupe di Pasolini e il secondo a uno di Bertolucci, comincia con il parmense a bordo campo a dare direttive e a quello il poeta di Casarsa della Delizia in campo. Nella squadra di Salò e le centoventi giornate di Sodoma, guidata da Pasolini, è presente un ex delle giovanili della Lazio, Umberto Chessari, attore, celebre per il film pasoliniano e per Non aprite quella porta 3, che grazie alla sua ottima visione di gioco manda i suoi avanti per 2-0 dopo pochi minuti. Il grande contenuto agonistico accende la sfida tra Pasolini e Barone, montatore di Novecento. Il poeta, dati i ripetuti contatti sugli stinchi, esce stizzito e dolorante dal campo. L’infortunio di Stuka costa tantissimo al Bologna-Salò e le centoventi giornate di Sodoma – con la divisa rossoblù – che finisco per essere ribaltati e sconfitti per una tripletta di Enrico Catuzzi, diventato poi allenatore - affiancando anche Zeman a Palermo - in piazze importanti come Bari, Como, Modena.
Pochi mesi dopo, Pasolini viene trovato morto all’Idroscalo di Ostia. A cinquant’anni da quel 2 novembre 1975 la sua immensa eredità artistica, intellettuale, resta viva e continua a muoversi tra le pieghe della società contemporanea.
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