Corriere dello Sport, Dalla Palma: “Mandiamo i giocatori a scuola di social”

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Come si è reinventato il giornalismo sportivo con l’avvento dei social media, come educare le giovani leve all’utilizzo delle piattaforme digitali e le conseguenze dell’assenza dell’Italia ai mondiali di Russia di questo e tanto altro abbiamo parlato con Alberto Dalla Palma, caporedattore del Corriere dello Sport-Stadio.

I profili dei calciatori sono ormai diventati una delle fonti primarie per raccogliere notizie. Come è cambiato il giornalismo sportivo nell’era dei social?

Il giornalismo è completamente cambiato negli ultimi anni, proprio a causa dei social. Che spesso sono fonte di notizie preziose, di comunicazioni che poi sfruttiamo per i nostri servizi. Ma, di contro, i social spesso bruciano le notizie e tolgono l’interesse, in questo caso, verso i giornali. Per questo sul cartaceo c’è sempre il tentativo di trovare qualche tema diverso, che possa incuriosire il lettore. La cronaca, ormai, è già nota quando il giornale va in edicola.

In qualche modo questi nuovi media stanno togliendo qualcosa al ruolo della stampa e dell’informazione in generale. Si va verso una disintermediazione totale dei club nei confronti dei tifosi?

Una volta le grandi società di calcio per avvicinare i tifosi usavano la comunicazione tramite il giornale. Sia per diffondere notizie sia per diffondere interviste ed opinioni di interesse comune. Oggi un tifoso deve quasi sempre rivolgersi al mondo social per ottenere le informazioni che cerca e in modo più rapido. Il rapporto, però, diventa più freddo e distaccato.

Quale valore aggiunto dà ad un club la presenza sui social network?

Facebook, Twitter e Instagram sono diventati elementi fondamentali per i più grandi club calcistici del mondo. Pensate solo a quante informazioni si possono trovare sui club che partecipano alle coppe europee. Tra l’altro più seguito hai, più hai la possibilità di commercializzare il prodotto ottenendo anche delle inserzioni pubblicitarie.

Secondo lei le società di Serie A hanno compreso che una efficace comunicazione web può servire ad intercettare nuovi sponsor, aiutare nella crescita degli abbonamenti e nella vendita dei prodotti di merchandising?

Direi proprio di sì, tanto è vero che tutti hanno potenziato questo settore. Ci sono società che hanno addirittura diviso in due l’ufficio stampa: quello per la comunicazione con stampa scritta e televisioni e quello dedicato ai social. Ma non solo: esistono uffici commerciali dei club che si dedicano soltanto alla parte web, dove si possono acquistare i prodotti in merchandising.

Anche i calciatori diventano editori sui social. Alcuni si improvvisano, non si affidano a un team digital e possono andare incontro ad episodi che li vedono scendere in polemica one to one con i followers. Quanto potrebbe essere utile una sorta di “educazione digitale”?

Credo che sarebbe quasi obbligatoria, soprattutto per i calciatori che agiscono istintivamente senza riflettere sui danni che possono provocare con certi messaggi rilanciati magari pochi minuti dopo la conclusione dell’impegno agonistico. Non è mai bello vedere un campione che offende un collega o addirittura entra in conflitto con i suoi tifosi o con quelli avversari.

Riuscire a strutturare sessioni formative a partire dalla squadre giovanili potrebbe essere già un successo?

Sì, sarebbe una strada intelligente: i giovani potrebbero crescere sapendo quali sono i vantaggi e i pericoli riscontrabili sui social. Ogni società dovrebbe occuparsi non solo della crescita agonistica dei ragazzi ma anche di quella… sociale e culturale.

Quali sono le società della nostra Serie A più avanti nel processo di professionalizzazione dell’area marketing?

Juventus e Milan su tutte, hanno avviato prima degli altri il loro processo di modernizzazione, imitate subito da altre grandi come Inter, Roma e Napoli. Ma le prime due sono al top anche a livello europeo.

Quali sono secondo lei i tre talloni di Achille del calcio italiano in termini di business e marketing?

Credo che indicandone uno si può capire su quanto siamo indietro rispetto a Premier, Bundesliga e Liga. La mancanza di stadi di proprietà significa non avere la capacità di sviluppare i propri affari e in particolare il marketing sportivo. In occasione di un derby di Manchester o di Madrid, per esempio, il club che gioca in casa può realizzare incassi straordinari al cosiddetto shop dedicato ai tifosi. In Italia acquistare una maglia della squadra del cuore è ancora difficile, siamo indietro di anni e lo sappiamo benissimo. Ma niente si muove a livello politico e industriale: lo stadio della Roma è una dimostrazione di quanto sia burocraticamente complicato mettersi al pari delle grandi società europee.

L’Italia è fuori dai mondiali? Quali saranno le ripercussioni dal punto di vista degli investimenti commerciali e pubblicitari?

Giornali e televisioni hanno perso decine di milioni di euro di pubblicità che era già stata messa in preventivo dal bilancio precedente. Il mondiale era una fonte di reddito quasi indispensabile per tutti: senza l’Italia in campo, il mondiale vale meno della metà. Si parla di perdite complessive che superano il mezzo miliardo di euro.

Giulia Spiniello 

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