La ricerca dell’equilibrio, intervista ad Alessandro Gazzi
Uno dei giudizi che sfocia più di altri nel calderone nel qualunquismo, in riferimento al mondo del calcio, riguarda l’errata rielaborazione dell’immagine che un tifoso riflette su un calciatore.
Un processo di distorsione che limita la personalità di un calciatore alla mera figura di performer, di atleta capace perfettamente di scindere la prestazione, e quindi il suo lavoro, al contesto privato, quindi alla vita di tutti i giorni.
A giustificare tale capacità attribuita ingiustamente ai calciatori, ma anche a tutti i tipi di atleti professionisti, è il compenso economico garantito dal loro status.
Come se un cachet basti da solo a creare uno scudo protettivo contro le problematiche e le normali paure di tutti i giorni. Nulla di più sbagliato, ovviamente.
Di queste micro-tematiche, ma più in generale di salute mentale per i calciatori, ne avevamo parlato in precedenza con Giorgia Rocchetta, psicologa del Torino, e torniamo a farlo oggi con un ex calciatore che la maglia del Torino l’ha indossata in Serie A.
Abbiamo intervistato Alessandro Gazzi, ripercorrendo la sua esperienza personale.
Ciao Alessandro, grazie per la disponibilità.
Il Chicharito Hernandez ha lanciato il suo podcast a settembre "Non siamo robot" per parlare di temi come la salute mentale dei calciatori.
Quanto possono aiutare messaggi e attività del genere per rendere tutti più pronti a discutere di queste tematiche?
“Queste iniziative aiutano a rendere più discusso il discorso della salute mentale dei calciatori. Secondo me il tema della salute mentale non deve essere incorniciato come un argomento volto ad approfondire le problematiche ma deve spingersi verso il miglioramento lavorativo e del proprio modo di giocare.
Il messaggio deve rivolgersi all’obiettivo di miglioramento del proprio calcio. Poi ci sono casi particolari che vanno aiutati ma anche in questo caso l’aiuto non deve essere visto come una cosa negativa. Aiutare un altro in difficoltà è una cosa bella”.
In uno dei tuoi racconti dici che quando hai attraversato il tuo periodo di difficoltà mentale non ne hai parlato con compagni di squadra e staff.
Quanto è difficile farlo e da cosa dipende la possibilità di aprirsi al proprio ambiente lavorativo?
C'è forse il timore di essere etichettati da parte di chi lavora con te?
“Quando ebbi un periodo di difficoltà e non ne parlai con lo staff e i compagni era dovuto al fatto che sono un tipo abbastanza chiuso e introverso, ho del timore a tirar fuori quello che sento, però più una cosa che fa parte del carattere.
Ognuno ha il suo modo di vedere le cose e quindi di esporre i propri problemi. Considerando poi che il calcio, come altri contesti lavorativi, è un mondo competitivo, non è così scontato aprirsi. Molto dipende dal grado di fiducia che si ha nelle persone con cui ci si relaziona e la società, negli allenatori".
"È una questione di empatia che si instaura tra le persone. Non credo di dire nulla di nuovo o illuminante, ma quando non c’è empatia tutto ciò viene meno.
Più che essere etichettati, il timore forse è proprio quello di far trapelare le proprie debolezze, capisci quindi che potrebbe essere un problema in un ambiente competitivo come ti dicevo prima, anche se poi capisci che solo nel momento in cui lo fai puoi anche essere aiutato.
Essendo uno sport di squadra in cui si lavora di gruppo c’è anche bisogno del lavoro di chi dà meno in quel momento perché ha un problema. Il gruppo è tale proprio perché aiuta chi ha un momento di difficoltà mentale”.
Quanto influiscono sulla vita in campo e su quella fuori dal campo le condizioni mentali avverse?
"Sono convinto che le difficoltà che puoi avere nel contesto lavorativo poi influenzino anche il contesto privato. Data l’importanza che diamo al lavoro nell’arco della nostra quotidianità, le difficoltà interessano anche i rapporti privati perché in effetti la testa è sempre lì.
Nell’esempio calcistico dopo una partita pensi: come ho fatto a sbagliare quel passaggio? Perché ho giocato così quella palla? Ed ogni volta la testa va lì. Questo non ti porta a concentrarti sugli aspetti della vita privata”.
A proposito di etichette, poco dopo l'inizio della pandemia ci siamo trovati difronte al caso Ilicic. Leggendo gli articoli di piccoli e grandi media, il tema della salute mentale dei calciatori, sembra sia ancora trattato in maniera superficiale.
Negli sviluppi della faccenda, ad un certo punto, ha provato a fare chiarezza il Papu Gomez, riportando notizie sullo stato del suo compagno. Tutto ciò è sembrato quasi voler isolare Ilicic e anziché alleggerire la situazione, ha celato nuove ombre sulla questione.
A tal proposito ti chiedo se possono esistere accortezze quando si racconta un momento del genere di un atleta. Non trovi che ci sia troppo timore a parlare di depressione senza cadere in accezioni fuorvianti?
"Sono cose abbastanza delicate. L’accortezza sta nelle parole e nel modo di dire le cose. Si trova anche con una certa trasparenza. Riprendo il titolo del podcast di Hernandez, non siamo appunto robot ma siamo esseri umani condizionati dalle nostre emozioni positive come quelle negative."
"La vita non ha un equilibrio costante tra emozioni positive o negative, a volte ne prevale una e a volte l’altra. È Come una montagna russa e devi essere bravo a gestire le varie oscillazioni. Poi su queste cose posso dire la mia da calciatore, ma non essendo psicologo o non avendo le basi formative su questi argomenti posso dire poco”.
Riprendendo la tua esperienza personale, quali sono state le sensazioni che hai provato agli inizi del periodo di difficoltà mentale?
Quali sono invece i processi interni che hai attivato per uscirne fuori passo dopo passo?
“Ho avuto persone che mi sono state vicine come la mia famiglia e mia moglie.
Sotto l’aspetto calcistico sentivo le gambe che tremavano piuttosto che una certa ansia prima di entrare in campo. Come meccanismo ho interiorizzato la consapevolezza che si può sbagliare e che la perfezione non esiste, sapendo che quelle sensazioni ad un certo punto sarebbero andate via.
Il calcio è una ruota che gira dove ogni domenica c’è una partita: in una fai male e nell’altra fai benissimo; quindi, devi avere la capacità di essere equilibrato e valutare tutto con grande razionalità anche se spesso non è facile dato che il calcio ruota attorno all’entità del risultato".
"Gli eventi che vivi in campo prendono un valore diverso poi nella vita quotidiana. Un fallo in più che hai fatto che magari ha causato un gol, oppure una tua rete decisiva può influenzare il resto delle cose dato che i calciatori sono molto focalizzati su quello che succede in campo.
Devi cercare l’equilibrio, io l’ho trovato accettando l’ansia e l’errore, poi quando le aspettative si sono abbassate sono riuscito ad uscirne”.
Per chiudere, mi incuriosiva l'ecosistema che ti sei creato intorno tra blog personale, racconti e social. Mi hai detto che sei discontinuo nell'uso dei social media ma appena puoi trasporti alcune cose in parole e racconti.
In futuro ti piacerebbe coltivare di più questo interesse? Quando giocavi invece, riuscivi a parlare di questo lato della tua persona o difficilmente nello spogliatoio si parla di libri, lettura e interessi affini?
“Tutto è accaduto in maniera abbastanza naturale. Avevo questa passione per la scrittura e così ho cominciato. Ho avuto la fortuna di entrare nella squadra di 66thand2nd e scrivere un libro uscito da poco (Un lavoro da mediano. Ansia, sudore e Serie A, ndr).
Quando giocavo, nello spogliatoio di libri si parlava pochissimo, non è che sia uno dei maggiori argomenti di discussione oltre il calcio, però ogni tanto capitava di parlarne. Io poi sono uno che pubblicizza poco le cose che faccio a causa della mia discontinuità sui social”.