Capire gli esports: intervista a Alex Alguacil del Bayern Monaco

Alejandro Alguacil Segura è un player che come molti altri ha cominciato a giocare a PES da ragazzino, per passione, senza immaginare cosa sarebbe diventato il mondo del pro gaming.

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Addirittura, Alex è uno di quelli che già quando aveva 3 anni giocava con il fratello e il cugino “senza connettere il joypad” come ci tiene simpaticamente a ribadire.

Iniziamo a rompere il giacchio e per scioglierlo definitivamente gli chiedo di raccontarmi le tappe che hanno contraddistinto l’inizio della sua carriera.

«Ho giocato tutta la mia vita a PES. Ho usato moltissimo l’edizione del 2012 e da lì abbiamo iniziato a vedere che iniziavano a organizzare competizioni qui in Spagna. Ci ho partecipato anche per la curiosità di vedere il livello e confrontarmi.

Due anni dopo, nel 2014, ho partecipato al primo torneo internazionale, in Svizzera a Nyon nella sede dell’UEFA.

L’anno dopo riesco a diventare campione di Spagna e grazie a questo risultato inizio a rappresentare la nazionale.

In quel periodo poter girare l’Europa tutto spesato come un vero professionista era la grande motivazione, anche perché a quei tempi i premi per i vincitori dei tornei erano bassissimi».

Tant’è che Alex mi conferma che in tutto questo periodo non giocava per un team organizzato ma in singolo. Perché tutti quelli che acquistavano il gioco potevano provare a competere nel circuito competitivo.

«Ma nel 2016 tutto è cambiato e Konami ha cominciato a investire moltissimo».

In quell’anno Alex vince anche EURO 2016.

«La vittoria internazionale più importante per me». 

Per farvi capire quanto le cose stessere cambiando, l’anno successivo si rigioca il mondiale (queste competizioni non seguono sempre la calendarizzazione delle manifestazioni ufficiali) e il montepremi che mette sul banco Konami per il vincitore è di 200k dollari.

Alex mi racconta senza filtri che «In quell’esperienze feci schifo, subito fuori al girone ma allo stesso tempo ebbi l’occasione di iniziare a studiare e guardarmi intorno».

Per la precisione Alguacil ha optato per “Finanzas y Contabilidad” a Granada, quella che in Italia sarebbe la facoltà di Economia.

Poi, per concludere la panoramica completa della storia da player di Alguacil, gli ultimi anni.

«Nel 2018 cambia tutto: campione del mondo nel 3 vs 3 e vicecampione in singolo. Da lì il contatto (e il contratto, ndr) con il Barcellona, compreso il trasferimento in città e quindi il percorso da professionista con un club».

Ora però sei al Bayern Monaco, quindi non hai vestito per molto tempo la maglia dei catalani, praticamente solo un anno. A questo punto ti faccio una domanda particolare. Ma nel mondo esports esistono le bandiere come nel calcio tradizionale? Players che giocano per parecchio tempo in una sola squadra.

«No. Come giocatori esports non arriviamo a questo livello. Nel mio caso quando arrivò la chiamata del Bayern la cosa era troppo allettante. Un top team che mi permetteva di tornare a casa (Alex è di Granada e quando era un player del Barcellona si era trasferito, ndr), con un roster pieno di spagnoli».

Poi Alex mi spiega e contestualizza la situazione. I players in questo mondo tendono a cambiare squadra spesso proprio perché i contratti sono brevi. Non esistono contratti di 5 anni come il calcio e al massimo si arriva a 2 anni. Questo perché nel mondo dei giochi elettronici tutto cambia troppo velocemente e né a un giocatore e né a un club magari conviene legarsi per così tanto tempo.

L’ecosistema di PES ad oggi include solo 30 giocatori etichettati professionisti.

Anche questo influisce nella durata dei contratti in un mondo in crescita ma ancora tutto in costruzione.

«Puoi essere il migliore nel 2019 ma poi tutto cambia 2020».

Quindi i contratti brevi sono quasi una tutela anche per i club. 

Alex ci aiuta anche a sfatare quel falso mito che ormai risiede solo nella “conoscenza” di chi degli esports non ne ha ancora compreso le effettive potenzialità, caratteristiche e virtù. Quel luogo comune che etichetta i players come ragazzi “incollati” tutto il giorno alla console.

Il player del Bayern infatti si allena solo dalle 16 in poi. Prima si dedica allo studio e all’attività fisica. Quando accende la console si allena a PES per circa “4-5 ore effettive di gioco” da quando è con i bavaresi.  

«Dopo abbiamo una sessione con il nostro coach. Una sessione di analisi sul nostro gioco e quello dei rivali, una cosa che lo rende simile al calcio reale».

Ma secondo te gli esports vanno considerati come sport reali o un gioco a parte?

«Questa è un po’ la domanda di sempre. Penso che ci siano moltissime cose uguali nell’allenamento e nella mentalità. Se stai bene fisicamente aiuta anche nel momento di tensione e stress nella partita virtuale. I due mondi possono imparare ognuno dall’altro.

Data la situazione, è anche il momento di far arrivare gli esports a tutti. Non so se hai dato un’occhiata a quello che ha dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Hanno individuato gli esports come un’ottima soluzione di intrattenimento e svago per questo periodo di quarantena».

Beh, vero. Aggiungo anche che se inseriti in un programma scolastico ben guidato, i videogiochi possono essere anche un ottimo sistema per sviluppare la personalità di alcuni ragazzi.

I videogiochi, con intelligenza possono offrire un’opportunità in più ai ragazzi che oggi possono e devono sognare di diventare pro-players.

«Sì. Io dico sempre una cosa, un conto è giocare 10 ore ai videogiochi senza obiettivo, un conto è giocare 3-4 ore da professionista. Inoltre, ora fare il professionista è diverso da prima: ora non bastano le skills ma devi allenare tante cose estranea al gioco, devi lavorare mentalmente, devi essere intelligente, devi saper usare i social media. Devi essere professionista in tutto. E questo è buono per la tua vita.

Gli esport hanno reso il ragazzo che sono oggi. Le competizioni mi hanno insegnato molto e portato a viaggiare, ad avere contatti con persone che non conoscevo, mi hanno fatto imparare lingue come l’italiano e l’inglese.

Stare tutto il giorno a casa per giocare ai videogiochi non è buono. A un eventuale mio figlio non lo permetterei».

Ma a proposito Alex. Come mai hai imparato a parlare italiano?

«Da sempre uno dei miei migliori amici di PES è Ettore Giannuzzi (soprannominato “Ettorito”, ndr) che è il miglior giocatore della storia del gioco. Siamo anche dello stesso anno, del 1997.

Due anni fa ho iniziato la modalità 3 vs 3 lanciata da Konami e abbiamo fatto squadra con lui e Luca Tubelli di Napoli, quindi altro player italiano. Allora dovevamo fare conversazione in cuffia e col tempo e i viaggi insieme, parlando l’ho imparato».

Tra l’altro sono tuoi rivali nella Juventus nella competizione eFootball.Pro, dove li hai battuti col Bayern. 

«Sì, esatto (ride). Praticamente conosco tutti i giocatori italiani». 

Alex mi ha restituito l’immagine che molti players mi avevano già trasmesso. Semplicità, voglia di divertirsi e tanta passione per il calcio tradizionale, oltre che per quello virtuale.

La conversazione va avanti e si passa a parlare dell’emergenza attuale, di come la stiamo vivendo in due nazioni distanti ma molto simili culturalmente, e infine della Liga Challenge di FIFA, che Alex ha visto con un po’ di invidia nel senso positivo del termine, data la spettacolarità dell’idea ma l’assenza di players professionisti.

Grazie Alex. 

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