Alvaro Moretti: “La comunicazione social può diventare fuoco amico: il calcio italiano impari a gestirla”

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I cambiamenti nel giornalismo sportivo e non solo con la diffusione del web 2.0, il fenomeno Totti su Internet, le difficoltà di calciatori e società nei confronti dei social network. Di questi e altri temi abbiamo parlato con il direttore di Leggo, Alvaro Moretti.

Leggo è diventato il free press più social, avete partecipato alla Social Media Week di quest’anno con la 2° edizione dei 'Leggo Awards direttori per un giorno'. Da cosa nasce questa evoluzione e dove volete che vi porti questa interconnessione con il mondo dei social?
Nasce nel 2011 in conseguenza di quanto stava accadendo nel mondo dell’editoria e della carta stampata. Leggo decide di chiudere alcune delle 14 edizioni locali di carta stampata, concentrandosi su quelle di Roma e Milano, e di sviluppare la parte dedicata al web e ai social network. In quel periodo si assisteva una forte crescita di Facebook, anche se il mondo dell’editoria guardava molto a Twitter che però, come è noto, è quasi irrilevante dal punto di vista del traffico che può generare. La gente, in sostanza, si raggiungeva con Facebook e non con Twitter. Leggo è un giornale molto flat, molto orizzontale: è generalista, non è schierato né politicamente né sportivamente. Questo ci ha indotto a scegliere Facebook come uno strumento di ricerca del nostro pubblico ed è stato un successo. Per tanti anni è stato tra i giornali con maggiore engagement. Siamo arrivati ad avere il 52-53% di traffico che arrivava tramite Facebook. Ad un certo punto, però, abbiamo dovuto approfondire anche il discorso SEO e delle ricerche su Google per far fronte al problema della vendita degli spazi pubblicitari legati ai dati Audiweb (l'organismo che rileva e distribuisce i dati di audience di internet in Italia, ndr), perché Audiweb non rileva Facebook in maniera ufficiale. In ogni caso, l’aver intercettato l’animo o la pancia di Facebook, ha un pochino condizionato anche il nostro modo di fare giornalismo.

Durante la Social Media Week lei ha avuto modo di intervistare Ugo Esposito e Christian Fasulo che curano i social di Francesco Totti. Che idea si è fatto del fenomeno Totti sui social?
Leggo è media partner di Social Media Week da 3 anni. Nell’edizione di quest’anno abbiamo organizzato dei panel, tra cui quello su Totti. Secondo me andava sottolineato il fatto che, proprio nella stagione del suo addio al calcio giocato, Francesco sarebbe stato grande protagonista del calcio virtuale 2.0. E’ l’anno in cui lui sbarca su Facebook, dove prima non c’era mai stato; è l’anno in cui la struttura di comunicazione intorno a lui prende una strada che è quella di raccontare Totti nella fase di passaggio al momento in cui non c’è più il campo che parla per lui; e in più aggiungerei che il suo addio è stato uno dei grandi momenti social del 2017. Abbiamo provato fino all’ultimo a coinvolgere anche lo stesso Francesco, lui non se l’è sentita perché erano i primi giorni in cui iniziava la nuova carriera da dirigente. Il lavoro che hanno fatto Esposito e Fasulo mi sembrava molto interessante ed era giusto dedicargli un approfondimento che, peraltro, è stato anche ben percepito dai partecipanti di Social Media Week, il cui pubblico è ovviamente composto da addetti ai lavori.

Prima di diventare direttore di Leggo la leggevamo su TuttoSport: come è cambiato il mestiere del giornalista sportivo con l’avvento dei social network?
Tuttosport è cambiato proprio con me. Nel 2008 sono stato incaricato dal direttore De Paola di fondare un sito internet delle testata che prima non c’era. Da subito ho percepito come la capacità di coinvolgimento molto viscerale dei social network era quanto di più vicino al classico “bar sport”, ed ho percepito come potessero essere uno dei potenziali strumenti per combattere la crisi dei giornali. Cosa questa che penso tutt’ora. Ovviamente parliamo di un’epoca primordiale per Facebook, il 2008 appunto. Negli ultimi temi sono cambiate tante cose: se solo pensiamo che rispetto a 5-6 anni fa oggi per accedere a un sito ci arriviamo attraverso le app o attraverso i social e non più digitando www, ne è passata di acqua sotto i ponti! All’epoca su Tuttosport, quando i blog andavano per la maggiore, introducemmo il “Blog del direttore”, con cui si interagiva direttamente con i lettori. Fu un successo enorme con 80.000/90.000 post accettati l’anno. I temi del blog molto spesso diventavano poi i temi del giornale stesso. Ed è quello che facciamo anche oggi su Leggo, dove i temi della rete diventano quelli del quotidiano. Come faccio io con il mio articolo di fondo che nasce quasi sempre da una notizia che trovo sui social network, oppure tramite il “Tweet del giorno” che prendo dal web scegliendo tra i temi caldi del momento. Tuttosport in quegli anni aveva un sito molto aggressivo, con una scelta di titoli e immagini di impatto, tanto che venne perfino aperta su Facebook una pagina di fan che si chiamava “I titoli di Tuttosport”, dove venivano collezionate le homepage del sito.

Le società di calcio sono diventate editori: hanno assunto social manager, video editor e altre professionalità del settore, per produrre contenuti di qualità e accrescere la visibilità in rete. Quante squadre in Italia – secondo lei - stanno riuscendo a tradurre tutto ciò in un valore economico?
Non ho i dati di bilancio delle società ma è chiaro che i club si stanno sempre più strutturando in questo senso, pur con tutta la fatica dovuta ad una certa arretratezza. Il loro brand è un elemento molto forte che potrebbe portare a implementare un lavoro di marketing importante. Ci stanno lavorando, anche se troppo spesso al vertice delle società non ci sono degli editori in quanto tali, ma ci sono dei dirigenti sportivi che valutano questo lavoro in maniera secondaria rispetto all’andamento della squadra e nello stesso tempo fanno ricadere sull’elemento della comunicazione alcune responsabilità, magari anche dei fallimenti tecnici del club. La maturità di utilizzo dei social network da parte degli atleti e da parte delle società ancora è molto primordiale e, sicuramente, si potrebbe fare di più considerando quale impatto ha sull’audience qualsiasi atto venga fatto dai loro protagonisti. Voglio dire che hanno delle armi davvero fortissime, ma se paragoniamo quello che fanno gli sportivi italiani a quello che fanno alcuni loro colleghi di altri sport professionistici in America e non solo, c’è una grande differenza. Gli stessi social media manager all’interno delle società di calcio italiane credo che soffrano un po’, perché hanno in mano uno strumento enorme, ma non possono usarlo: è un po’ come uno che ha a disposizione un cannone ma è costretto a sparare con la calibro 9.

L’Inter ha da poco festeggiato i 7 milioni di followers su Facebook ma le due big spagnole, Real Madrid e Barcellona, hanno già superato i 100 milioni. La nostra Serie A è ancora molto indietro?
Le nostre società non hanno capito che i social sono anche un modo di fare soldi, che sono lo strumento di maggiore prossimità con i loro tifosi e che quindi potrebbero consentirgli di fare ottimi affari sul merchandising e sulla propaganda di tutto il loro prodotto. Non riescono fino in fondo a capire quanto possano essere importanti dal punto di vista del rientro di notorietà, del flusso stesso delle notizie. In generale, gli addetti ai lavori pensano che le notizie siano una cosa negativa, non sempre sono capaci di gestire i flussi di comunicazione. Non si riesce a comprendere che le notizie sono come l’acqua: se c’è un pertugio, l’acqua passa dappertutto. Le notizie escono, prima o dopo, ma escono. E allora, se sei tu a gestire la notizia, anche attraverso i canali social, sicuramente riesci a gestirla molto meglio. Ne gestisci i tempi: se è una notizia che ti deve far male, decidi tu quando farla uscire affinché faccia meno male; se è una notizia che va enfatizzata, decidi tu come massimizzarla, perché ti può valorizzare anche il risultato sportivo. La realtà è che le società dovrebbero dare un mandato molto ampio ai propri esperti. Non mi sembra di vedere in giro una professionalità che possa reggere il confronto dal punto di vista dell’importanza con gli stessi dirigenti. Se una società ha in rosa il numero uno del calcio italiano, dovrebbe avere alla comunicazione il numero uno del giornalismo. Invece troppo spesso si va a cercare per questo ruolo il giornalista della “cantera”.

Un’operazione di rottura in questo senso l’ha fatta il Milan affidando la sua comunicazione a Fabio Guadagnini, un giornalista esperto: è stato al vertice della comunicazione di Roma 2024, ha lavorato a Sky, a Fox Sports. E i risultati si vedono…
Guadagnini è un grande professionista. Di fronte a una crisi enorme come quella che sta attraversando il Milan, credo che il livello di comunicazione dei rossoneri sia altissimo. Ovviamente quando le cose vanno bene non serve nemmeno la comunicazione. Ma quando le cose vanno male la gestione della comunicazione è davvero complicata.

È di queste giorni la notizia di Stefano Sturaro, giocatore della Juventus, che è caduto come tanti altri prima di lui, nell’errore di litigare con un utente su Instagram. Questo può essere evitato con una cura dei social affidata o, semplicemente, affiancata da uno staff digital?
Con un fatturato di 4 milioni di euro qualsiasi impresa entra nel direttivo della Confindustria. Che un calciatore - che fattura più o meno quei soldi - non abbia personalmente un esperto di comunicazione che gli cura questo aspetto molto rilevante del suo lavoro, che molto spesso gli condiziona addirittura il suo lavoro, io lo trovo una bizzarria! Faccio un esempio citando Bobo Vieri che nei suoi anni era il più forte attaccante del mondo, segnava un gol a partita: lui ha sempre avuto un ottimo procuratore, Sergio Berti, il quale però non rispondeva mai al telefono. Era la sua strategia. In un mondo come quello di un qualche anno fa questo poteva anche funzionare. Oggi invece è esattamente il contrario. Lo stesso Francesco Totti ha avuto sempre qualcuno che lo aiutava dal punto di vista della comunicazione, gente come Maurizio Costanzo e Serena Dandini, e lo stesso staff che da qualche anno ne gestisce l’immagine pubblica. Sono aspetti che vanno curati da professionisti e trovo incredibile che un giocatore che guadagna 10-12 milioni di euro l’anno, non paghi 50.000 euro per un consulente che faccia questo lavoro. E’ un mondo che faticosamente si mette al passo con i tempi, e per me rappresentano davvero delle occasioni perse. I social network sono di per sé dei veicoli di comunicazione straordinari ma è come se gli addetti ai lavori della Serie A si trovassero in guerra senza poter usare l’arma più forte a loro disposizione. E se ti va bene non la usi, ma se ti va male ti spara anche contro. In sostanza un fuoco amico!

Un’ultima domanda, questa volta sulla Nazionale. Dopo l’esclusione degli azzurri dai mondiali di Russia, è logico attendersi anche una riduzione degli investimenti da parte dei brand nei confronti delle squadre della nostra Serie A?
Non credo che ci saranno ripercussioni sulle squadre, penso che saranno limitate alla Federazione. In ogni caso il brand del calcio italiano cresce, per quanto non riesca a crescere come gli altri. Noi sappiamo che 1,2 miliardi circa di diritti televisivi che l’Italia ha ottenuto è una crescita forse anche immotivata del suo impatto dal punto di vista dei ricavi, laddove però in Inghilterra ci sono squadre di infimo livello che guadagnano solo per i diritti tv circa 4 volte quello che guadagna un’analoga società in Serie A, un Chievo ad esempio. Senza nemmeno fare il confronto dei fatturati, perché qui da noi c’è solo la Juventus che regge da quel punto di vista. Una società peraltro che, va ricordato, è ripartita da zero nel 2006 dopo Calciopoli. Un caso di scuola che dovrebbe far riflettere tutte le altre società: il club bianconero fu quasi azzerato all’epoca, ha visto ridotto del 50% il suo budget quando ha militato in Serie B e oggi fattura circa 3 volte e mezzo quello che fatturava quando è retrocessa. Oggi alcuni nostri club sono all’interno della top 20 mondiale per fatturato, ma non c’è più nessuna che sia nella top 5.

Giulia Spiniello

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